Cesare dopo l'orario di lavoro lo trovavi quasi di sicuro fuori dal pub 
con le spalle appoggiate al muro e una pinta in mano. Pinta che si 
faceva sempre versare nei boccali della Guinness perché, diceva, sono 
perfetti per aprire le facce. 
Cesare era figlio di quella stessa rabbia che o te la tieni dentro 
finché non esplode o la lasci fluire e la condividi con chi ti capita a 
fianco. Ma non aveva mai effettivamente fatto violenza su nessuno. Anche
 se lo sapevano in pochi. Istintivamente sapeva che il modo migliore per
 non farsi rompere il cazzo nella giungla in cui era nato e cresciuto 
era far credere in giro che fossi chissà quale pazzo criminale. E 
l'aspetto gli dava comunque una mano. Non alto, vestito perennemente con
 anfibi, jeans slavati maglietta bianca e bretelle [al massimo, in pieno
 inverno, aggiungeva un maglione grigio e un bomber nero] perché quella,
 secondo lui, era la divisa di chi lavora in cantiere. E lui montando 
ponteggi ci aveva passato ormai più di metà della sua vita.
 A Cesare piaceva ascoltare musica punk, ska, reggae e soprattutto l'oi!
 ed era naturalmente contro ogni forma di autoritarismo. "Chi ha passato
 la vita in cantiere odia per forza chiunque vuole comandare. E poi i 
padroni so' tutti fasci, quindi noi non possiamo che essere comunisti 
nel cuore e nelle vene".
Cesare era sempre il primo a lasciare la pinta e muoversi se si trattava
 di andare a coprire svastiche, celtiche e robba del genere perché 
quella era la sua zona e il controllo del territorio è la prima cosa.
Cesare regalava sorrisi e complimenti a tutti con lo stesso ritmo con 
cui offriva le sigarette del pacchetto morbido che teneva nella tasca 
posteriore destra dei jeans.
Cesare amava rosolarsi al sole che colpiva la facciata del pub parlando di calcio, motori o politica.
Cesare imbruttiva spesso, ma si era incazzato solo una volta. Imbruttiva
 magari a un coglione pieno di soldi che si era permesso di prendere in 
giro l'indiano che passava al pub per vendere le rose e farsi offrire 
una birra. Gli dimostava di quanto gli fosse inferiore per cultura e 
dignità. E di quanto fosse inferiore a lui per fegato. Si era incazzato,
 invece, per amore. Perchè solo l'Amore fa incazzare davvero.
Cesare amava la sua città, il suo quartiere e la sua strada e si 
incazzava a vedere come la stessero colonizzando poco alla volta per 
farla diventare un posto per figli di papà come avevano già fatto con 
Trastevere, Testaccio, Sanlorenzo, ilPigneto...
Cesare ora guarda il sole che splende alto ma non riesce a scaldare l'asfalto sotto di lui.
Cesare è in preda agli spasmi causati da un colpo alla nuca sferrato con
 un casco da un sedicente naziskin che ha creduto di dimostrare il suo valore aggredendolo con altri 5 alle spalle.
L'ultimo pensiero di Cesare è che nessuno ha insegnato a chi lo ha colpito come si vive.
[Il penultimo, l'ultimo è Pezzi de mmerda, dovete morì male. Tanto.]